Giuggiole

Giuggiole

 

Che cosa sono le giuggiole?

Le giuggiole sono i frutti della Ziziphus jujuba, specie appartenente alla famiglia delle Rhamnaceae. Hanno origine in Cina, ma vengono coltivate anche in Corea, in Giappone e nel Medio Oriente.

 

Che proprietà nutrizionali hanno le giuggiole?

100 g di giuggiole fresche apportano:

79 Calorie, circa

1,2 g di proteine

0,20 g di lipidi

20,53 g di carboidrati

fibra alimentare

69 mg di vitamina C

0,900 mg di niacina

0,081 mg di piridossina

0,040 mg di riboflavina

0,020 mg di tiamina

40 UI di vitamina A

250 mg di potassio

23 mg di fosforo

21 mg di calcio

10 mg di magnesio

3 mg di sodio

0,48 mg di ferro

0,084 mg di manganese

0,073 mg di rame

0,05 mg di zinco

Le giuggiole sono fonti di tannini. In 100 grammi di frutto fresco sono presenti circa 3,2 mg di catechina e 1,3 mg di quercetina.

 

Possibili effetti collaterali delle giuggiole

È possibile che le giuggiole interferiscano con la venlafaxina, un farmaco antidepressivo.

 

Stagionalità delle giuggiole

L’albero delle giuggiole si riempie di frutti entro il mese di luglio.

 

Possibili benefici e controindicazioni delle giuggiole

Le giuggiole, essiccate o ridotte in polvere, vengono impiegate nella medicina tradizionale cinese per alleviare nervosismo, ansia e insonnia, prevenire le infezioni e migliorare le capacità digestive. Sicuramente questi frutti sono fonti di nutrienti essenziali per il corretto sviluppo e per il benessere generale dell’organismo. Le loro fibre contribuiscono a proteggere la salute intestinale; inoltre il loro consumo fornisce un apporto di vitamina C che corrisponde a un pieno di potere antiossidante. In più, la vitamina C è importante per la sintesi del collagene e contribuisce alla guarigione delle ferite. Il calcio è importante per la salute di ossa e denti, per la contrazione dei muscoli, per la coagulazione del sangue e per la trasmissione dell’impulso nervoso; il ferro è fondamentale per la produzione dei globuli rossi e le vitamine del gruppo B sono alleate del metabolismo. Infine, sono note le capacità antinfettive, antinfiammatorie e antiemorragiche dei tannini. Attenzione, però: rispetto ad altri frutti le giuggiole sono piuttosto caloriche.

Le giuggiole, anche nella loro variante disidratata, sono considerate alimenti generalmente sicuri.

 

Disclaimer

Le seguenti informazioni rappresentano indicazioni generali e non sostituiscono in alcun modo il parere medico. Per garantirsi un’alimentazione sana ed equilibrata è sempre bene affidarsi ai consigli del proprio medico curante o di un esperto di nutrizione.

Glatiramer

Glatiramer

 

S’impiega nel trattamento della sclerosi multipla e per prevenirne le ricadute.

 

Che cos’è il glatiramer?

E’ una combinazione di quattro aminoacidi che esplicano la loro azione influenzando il funzionamento del sistema immunitario.

 

Come si assume il glatiramer?

Viene somministrato tramite iniezioni.

 

Effetti collaterali del glatiramer

Fra i suoi possibili effetti avversi del glatiramer sono inclusi arrossamenti, lieve dolore, gonfiori, bozzi o cambiamenti dell’aspetto della pelle a livello del sito di iniezione.

È importante notiziare il medico in caso di sensazioni di ansia, colpi al petto, difficoltà respiratorie, calore, prurito, pizzicore, sensazione di restringimento a livello della gola durante la somministrazione del farmaco.

 

È importante avvisare subito il curante anche in caso di:

rash

gonfiore a bocca, volto, labbra o lingua

vampate di calore

battito pesante o irregolare

orticaria

prurito

difficoltà a respirare

senso di pesantezza, oppressione o dolore al petto

 

Controindicazioni e avvertenze

Prima della somministrazione è importante rendere edotto il medico:

circa la presenza di eventuali allergie al principio attivo, ai suoi eccipienti, a qualsiasi altro farmaco, ad alimenti o ad altre sostanze (in particolare al mannitolo)

dei medicinali, dei fitoterapici e degli integratori già assunti in passato

delle malattie di cui si soffre (o si è in pregresso sofferto)

in caso di donne gravide o in fase di allattamento

Durante la cura è importante seguire le indicazioni del medico circa sia alimentazione che attività fisica.

Il trattamento non deve essere interrotto senza previa autorizzazione medica.

Glaucoma

Glaucoma

 

Il glaucoma è una malattia cronica progressiva a carico del nervo ottico e che può portare alla perdita della vista.

 

Che cos’è il glaucoma?

Seconda causa di disabilità visiva e cecità in Italia, il glaucoma è causato all’aumento della pressione interna dell’occhio e in alcuni casi alla conseguente riduzione dell’apporto sanguigno verso il nervo ottico (responsabile della passaggio delle informazioni visive al cervello). Manifestazioni di questo danno è la perdita del campo visivo inizialmente nelle parti periferiche che via via va a coinvolgere la parte centrale del campo visivo, compromettendo la vista.

 

Quali sono le cause del glaucoma?

Per mantenersi tonico e sano, l’occhio esegue al suo interno un costante ciclo di produzione e assorbimento di umore acqueo. Questo processo avviene a livello del trabecolato, parte dell’occhio deputata appunto al deflusso dell’umore acqueo dall’interno verso l’esterno dell’occhio attraverso il circolo sanguigno. Sin caso di malfunzionamento del trabecolato, il processo di riassorbimento dell’acqua è rallentato, provocando un aumento della pressione all’interno dell’occhio che può danneggiare il nervo ottico e, di conseguenza, portare allo sviluppo del glaucoma.

 

In alcuni casi il nervo ottico può danneggiarsi anche senza un aumento della pressione, verosimilmente per una riduzione dell’apporto di sangue allo stesso nervo.

Esistono poi forme congenite di glaucoma che si manifestano già alla nascita.

 

Quali sono i sintomi del glaucoma?

Dapprima, il paziente non avverta sintomi dovuti all’aumento della pressione. Successivamente a seguito di danneggiamento del nervo ottico si iniziano a perdere le parti laterali del campo visivo. La prima a danneggiarsi è quindi la visione laterale, superiore e inferiore, e non quella centrale; per questo motivo il deficit non viene tempestivamente percepito dal paziente, che inizia ad urtare oggetti e ad avere difficoltà alla guida, senza però accorgersi della perdita di porzioni laterali di campo visivo.

 

La progressione della malattia non è lineare e quando si aggrava si arriva a perdere la visione centrale in modo rapido. Nella fase terminale della malattia, le possibilità terapeutiche sono poco, è quindi necessario sottoporsi a controlli oculistici periodici preventivi.

Diagnosi

Oltre all’esame refrattivo per la prescrizione di lenti, la prima visita prevede, l’esame del segmento anteriore dell’occhio e del fundus oculi:

una tonometria che misura la pressione intraoculare

una pachimetria che misura lo spessore della cornea

una gonioscopia che distingue tra i vati tipi di glaucoma

Successivamente potrebbero essere prescritti altri esami:

uno studio del campo visivo per valutare la sensibilità della retina

una tomografia ottica a luce coerente (OCT) delle fibre nervose peripapillari o del segmento anteriore e della bozza filtrante per controllare lo spessore delle fibre nervose attorno al nervo ottico

una perimetria computerizzata FDT (frequency doubling technology) per valutare eventuali modificazioni o riduzione del campo visivo

 

In altri casi particolari si prescrivono ulteriori esami

un test della sensibilità al contrasto e test dei colori

una fluorangiografia per controllare la presenza di aree ischemiche periferiche in caso di glaucoma neovascolare

un’iridografia in caso di glaucoma uveitico e neovascolare

un’ecografia A-B scan in caso non sia possibile utilizzare colliri che dilatano le pupille o in caso di cataratta che renda difficoltosa la osservazione del fondo oculare

 

Trattamenti

Il glaucoma può essere trattato, almeno nella fase iniziale, con terapia medica farmacologica (colliri). Se questo non risultasse sufficiente a ridurre la pressione oculare o il danno del campo visivo continuasse a progredire nonostante una riduzione della pressione si ricorre all’intervento chirurgico e in alcuni casi a terapie parachirurgiche (laser).

I trattamenti chirurgici che eseguiamo sono:

La trabeculectomia (è l’intervento standard per il glaucoma)

Impianto drenante Ex-PRESS®

La sclerectomia profonda (in pazienti che presentano già gravi peggioramenti del campo visivo)

L’endociclofotocoagulazione.

 

La chirurgia della cataratta (pupille miotiche, sinechiate, pseudoesfoliatio lentis) può a volte essere sufficiente a ridurre la pressione oculare o può facilitare l’esecuzione di un intervento successivo per glaucoma.

I possibili interventi parachirurgici sono:

La ciclofotocoagulazione con laser a diodi (particolarmente indicata in caso di glaucoma grave non responsivo ad altre terapie precedentemente provate, sia colliri che interventi chirurgici)

L’iridotomia YAG laser adatta soprattutto alla prevenzione del glaucoma acuto ma anche risolutiva in caso di attacco acuto di glaucoma o nella gestione di pazienti con blocco pupillare posteriore della sindrome da dispersione di pigmento.

L’ALT (trabeculoplastica argon laser): indicata in giovani pazienti con valori non troppo elevati di tono oculare, o in pazienti intolleranti ai colliri o pazienti che abbiano già sottoposti ad intervento per glaucoma con esito non ottimale e tono oculare che inizia ad aumentare nuovamente. Si usa questo intervento parachirurgico anche come supporto alla terapia medica in pazienti che non possono essere sottoposti ad intervento chirurgico.

L’iridoplastica laser (adatta in caso di una rara forma di glaucoma, detta sindrome da iride a plateau)

La goniopuntura laser (da eseguirsi alcuni giorni dopo un intervento di sclerectomia profonda ottimizzandone i risultati dello stesso)

L’argonlisi precoce delle suture del tassello sclerale in pazienti già operati di trabeculectomia o impianto Ex-PRESS (da eseguirsi alcuni giorni dopo l’intervento per ottimizzarne il risultato finale)

 

Prevenzione

I soggetti maggiormente rischio di glaucoma, e ai quali viene consigliato di sottoporsi a visite oculistiche periodiche, sono:

soggetti con parenti affetti da glaucoma (in questo caso il rischio di sviluppare un glaucoma arriva anche al 10-15%)

soggetti con uno spessore corneale ridotto, che si può valutare (o è già stato valutato) per mezzo di una pachimetria

soggetti con un disco ottico alterato nella sua normale anatomia (riscontrabile con un esame del fundus). Un disco ottico con sospetto per glaucoma ha un bordo assottigliato e una escavazione centrale piuttosto accentuata. Nei casi più avanzati cambia anche il suo colorito abbandonando il colore roseo per essere sostituito da un bianco pallido.

soggetti con difetti del campo visivo tali da far sospettare una diagnosi di glaucoma

pazienti con alcuni difetti oculari predisponenti al glaucoma, come ad esempio la pseudoesfoliatio lentis, la sindrome da dispersione di pigmento o un angolo irido corneale di ridotte dimensioni

i miopi elevati e i diabetici

pazienti che assumono pillole o eseguano iniezioni a base di cortisonici per lunghi periodi a seguito di problemi di salute generale (es. malattie reumatiche, oncologiche, ecc.), In questo caso si consigliano controlli periodici in quanto l’utilizzo prolungato di tali farmaci potrebbe far aumentare il tono oculare (cortico responders)

Gomito del tennista o epicondilite

Gomito del tennista o epicondilite

 

Il “gomito del tennista” è un’espressione che viene comunemente utilizzata per indicare l’epicondilite, un’affezione a carico del gomito dovuta alla degenerazione di un tendine alla sua inserzione ossea sull’epicondilo omerale (piccola sporgenza ossea terminale dell’omero che si trova nel gomito). Questa condizione, che provoca dolore anche molto intenso, è una conseguenza del sovraccarico tendineo dovuto a una continua sollecitazione dei muscoli epicondiloidei (quei muscoli, cioè, che permettono l’estensione del polso e delle dita della mano). La fascia di età più colpita da questo disturbo è quella dai 30 ai 50 anni.

 

Che cos’è il gomito del tennista?

Il gomito del tennista è una patologia degenerativa – se non trattata peggiora con il passare del tempo – e di solito è determinata da un sovraccarico funzionale (da un uso, cioè, eccessivo e continuato del gomito).  La condizione può essere provocata dalla ripetizione di movimenti anche leggeri, come l’utilizzo del mouse o la digitazione sulla tastiera del computer.

 

Quali sono le cause del gomito del tennista?

Come anticipato poc’anzi il gomito del tennista di solito è determinato da un  eccessivo e continuato del gomito. Si manifesta quindi più frequentemente in quei soggetti che, a causa di specifiche attività sportive o lavorative, ripetono frequentemente movimenti che interessano gomito, polso e mano.

 

Quali sono i sintomi del gomito del tennista?

Il dolore a livello del gomito è il sintomo più indicativo dell’epicondilite. Inizialmente il dolore è circoscritto al gomito, si manifesta quando si compiono movimenti di estensione del polso o della mano contro una resistenza e tende ad aumentare se sollecitato attraverso movimenti che richiedono il coinvolgimento dei muscoli dell’avambraccio. Se l’affezione non viene trattata, il dolore può irradiarsi lungo l’avambraccio e persistere anche a riposo.

 

Come si previene il gomito del tennista?

Per prevenire lo sviluppo dell’epicondilite è necessario limitare al minimo quelli che sono i fattori di rischio legati allo sviluppo di questa condizione.

Tra questi:

-sovraccarico funzionale dei muscoli e dei tendini del gomito.

-sforzi eccessivi connessi ai movimenti del braccio, e in particolare del gomito.

-danni diretti (come i movimenti scorretti o l’eccessiva estensione dell’avambraccio).

Goserelina

Goserelina

 

S’impiega nel trattare il tumore alla prostata, l’endometriosi e in alcuni casi, i sintomi del tumore al seno in fase avanzata.

 

Che cos’è la goserelina?

Si tratta di un analogo sintetico dell’ormone GnRH che riduce la produzione di alcuni ormoni.

 

Come si assume la goserelina?

Si somministra tramite un impianto sottocutaneo.

 

Effetti collaterali della goserelina

Può indebolire le ossa e aumentare il rischio di fratture, soprattutto se impiegata a lungo. Inoltre può incrementare il rischio di ictus e di gravi problemi cardiaci, i livelli di zuccheri nel sangue e, raramente, di apoplessia pituitaria; può anche interagire con i risultati di alcuni test di laboratorio.

 

Fra gli altri suoi possibili effetti indesiderati sono inclusi:

acne

variazioni nel volume del seno

problemi alla sfera sessuale

scariche di diarrea

mal di testa

vampate di calore

scomparsa dell’appetito

sbalzi d’umore

senso di nausea

sudorazioni

debolezza o stanchezza

stato d’insonnia

secchezza vaginale

Inoltre, nel corso delle prime settimane di trattamento, la goserelina può determinare l’aumento dei livelli di alcuni ormoni, tale effetto può essere associato alla comparsa di nuovi sintomi o al peggioramento di problemi preesistenti (quali, ad esempio, dolori alle ossa, intorpidimenti o pizzicori, sangue nelle urine, difficoltà di minzione e bruciori)

In seguito, l’abbassamento del livello di alcuni ormoni può essere associata ad aumento del volume, sensibilità o indolenzimento del seno.

 

È importante ricorrere subito alle cura di un medico in caso di:

rash

orticaria

prurito

difficoltà a respirare

senso di pesantezza, oppressione o dolore al petto

minzione dolorosa

sintomi di un ictus

difficoltà o impossibilità a urinare

mal di testa forte o persistente

improvviso e inatteso aumento di peso

gonfiore a braccia o gambe

sintomatologia dell’infarto

sintomi di iperglicemia

eccessive stanchezza o debolezza

irritazioni o emorragie a livello vaginale

reazioni al punto di iniezione

gonfiore a bocca, volto, labbra o lingua

male alla schiena

sangue nelle urine o urine scure

sangue nel vomito

dolore a livello osseo

dolore al seno

bruciori, intorpidimenti o pizzicori

battito accelerato o irregolare

stato febbrile, brividi o mal di gola

sbalzi d’umore o cambiamenti di comportamento

 

Controindicazioni e avvertenzenze

Può esserne controindicato l’impiego in caso di emorragie vaginali di causa sconosciuta.

Prima della somministrazione è importante rendere edotto il medico:

circa la presenza di eventuali allergie al principio attivo, ai suoi eccipienti, a qualsiasi altro farmaco (in particolare al GnRH o ad altre molecole che interferiscono con la sua azione), ad alimenti o ad altre sostanze

dei medicinali, dei fitoterapici e degli integratori già assunti in passato, in particolare anticoagulanti e qualsiasi farmaco che potrebbe indebolire le ossa o aumentare il rischio di prolungamento dell’intervallo QT

se si soffre (o si è sofferto in pregresso) di problemi cardiaci o ai vasi sanguigni, calcio alto nel sangue o altre anomalie degli elettroliti ematici (ad esempio magnesio o potassio), problemi alle vie urinarie, alle ossa o al midollo spinale, disturbi psicologici o psichiatrici, diabete o iperglicemi

in caso di ictus

in presenza di anamnesi familiare con casi di problemi alle ossa

in presenza di anamnesi familiare con casi di sindrome del QT lungo

qualora si sia sovrappeso

in caso di abuso di alcol (anche in passato)

se si è fumatori o ex fumatori

in caso di donne gravide o in allattamento

Può compromettere le capacità di guida o manovra di macchinari pericolosi; tale effetto collaterale può essere aggravato dall’alcol e da alcuni medicinali.

Dovrebbe interrompere le perdite mestruali; se ciò non dovesse succedere è bene contattare un medico.

Infine, le donne fertili – sia durante il trattamento che almeno per le 12 settimane successive alla sua interruzione – dovrebbero utilizzare efficaci contraccettivi non ormonali

Granisetron

Granisetron

 

Viene principalmente impiegato per prevenire la nausea e il vomito causati dai trattamenti chemioterapici contro i tumori.

 

Che cos’è il granisetron?

Si tratta di un antagonista dei cosiddetti recettori 5-HT3 che esplica la sua azione impedendo al neurotrasmettitore serotonina di causare il vomito.

 

Come si assume il granisetron?

Può essere somministrato via bocca, infuso in vena o per via transdermica. Di solito deve essere assunto tra 24 e 48 ore prima della chemioterapia, ma il curante potrebbe fornire delle diverse indicazioni a seconda dei casi.

 

Effetti collaterali del granisetron

Il suo utilizzo può aumentare il rischio di sindrome serotoninergica.

Fra gli altri suoi possibili effetti indesiderati sono inclusi:

mal di testa

senso di nausea

stato d’insonnia

conati di vomito

stato di debolezza

stato d’ansia

stato di costipazione

scariche di diarrea

capogiri

sensazione di sonnolenza

 

È importante rivolgersi subito ad un medico in caso di:

rash e altre irritazioni cutanee gravi o persistenti

orticaria

prurito

difficoltà a respirare

senso di pesantezza, oppressione o dolore al petto

gonfiore a bocca, volto, labbra o lingua

svenimenti

battito accelerato o irregolare

febbre, brividi o mal di gola

dolore o gonfiore allo stomaco

insoliti movimenti muscolari insoliti

 

Controindicazioni e avvertenze

Può essere controindicato qualora si stia assumendo apomorfina.

Prima della cura è importante rendere edotto il medico:

circa la presenza di eventuali allergie al principio attivo, ai suoi eccipienti, a qualsiasi altro farmaco (in particolare ad altri antagonisti dei recettori 5-HT3), ad alimenti o ad altre sostanze

dei medicinali, dei fitoterapici e degli integratori già assunti per il passato (in particolare antiaritmici, antifungini azolici apomorfina o chinoloni)

se si soffre (o si è sofferto in pregresso) di problemi cardiaci, anomalie nei livelli di elettroliti nel sangue o nell’elettrocardiogramma o problemi gastrointestinali

in caso di donne gravide o in fase di allattamento

in caso di recenti interventi chirurgici all’apparato gastrointestinale

in caso di assunzione di chemioterapici che possono determinare problemi cardiaci

Se utilizzato può compromettere le capacità di guida o manovra di macchinari pericolosi; tale effetto collaterale può essere aggravato dall’assunzione di alcol e da alcuni medicinali.

Chi impiega i cerotti transdermici dovrebbe evitare di esporli alla luce solare.

Gravidanza ectopica

Gravidanza ectopica

 

Quando in gergo medico si parla della cosiddetta “gravidanza ectopica” anche nota come gravidanza “extrauterina” si fa riferimento ad una condizione medica per cui l’impianto dell’ovulo fecondato non avviene nelle sedi preposte ma in locazioni pertinenti alla cavità uterina. Il riconoscimento e il trattamento precoce di questa condizione è un agente protettico che può realmente preservare la possibilità di future gravidanze.

 

Che cos’è la gravidanza ectopica?

Quando l’annidamento avviene al di fuori dell’utero si parla di gravidanza extrauterina (gravidanza tubarica, gravidanza ovarica, gravidanza addominale); si definisce invece “gravidanza ectopica intrauterina” nel momento in cui l’annidamento avviene dentro l’utero ma in sede impropria, come nel caso dell’impianto nel canale cervicale (gravidanza cervicale) o a livello dell’ostio tubarico (gravidanza cornuale).

 

Quali sono le cause della gravidanza ectopica?

Le gravidanze tubariche – ossia la tipologia che gode di maggiore frequenza di gravidanza ectopica, pari a circa il 95% del totale – hanno luogo quando:

La discesa dell’ovulo fecondato verso l’utero viene ritardata o deviata (a causa di lesioni anatomiche, lesioni infiammatorie, alterazioni tubariche congenite, endometriosi o alterazioni dell’anatomia pelvica per pregressi interventi chirurgici).

 

Lo sviluppo dell’ovulo fecondato viene accelerato in modo che raggiunga il grado di maturità necessario all’impianto quando ancora si trova nella tuba.

Le cause alla base delle altre forme di gravidanza extrauterina possono per lo più essere ricondotte agli stessi fattori della gravidanza tubarica. Alcune volte la causa è sconosciuta.

 

Quali sono i sintomi della gravidanza ectopica?

Se la gravidanza è iniziale (4^-6^ settimana), spesso la paziente è asintomatica. Il sospetto della presenza di una gravidanza ectopica viene quindi dato dalla presenza di un test di gravidanza positivo senza la visualizzazione della camera gestazionale all’interno della cavità uterina. SI hanno poi casi evidenti di carenza ematica anche nei suddetti casi registrati di gravidanza ectopica. Nei casi di gravidanza più avanzata, che comporta la progressiva erosione della tuba fino alla rottura, al sanguinamento vaginale, si accompagna importante dolore pelvico e/o addominale. Nei casi più gravi, quando cioè la tuba si rompe, la consistente perdita ematica in addome (emoperitoneo) può comportare vertigini e svenimento fino a un vero e proprio stato di shock.

 

Come prevenire la gravidanza ectopica?

Non si può impedire l’instaurarsi di una gravidanza extrauterina, ma è possibile ridurre alcuni fattori di rischio. Le azioni che possono aiutare ad evitare l’insorgere di gravidanze extrauterine includo la limitazione del numero di partner sessuali e utilizzare il preservativo durante i rapporti sessuali, al fine di prevenire le infezioni sessualmente trasmissibili e ridurre il rischio di sviluppare condizioni come la malattia infiammatoria pelvica.

 

Diagnosi

La diagnosi di sospetta gravidanza ectopica viene essenzialmente effettuata mediante:

L’analisi del valore e delle modificazioni ematiche dell’ormone HCG (l’ormone della gravidanza).

L’ecografia trans vaginale e trans addominale, che permettono di escludere la presenza di camera gestazionale in cavità uterina e di visualizzare la gravidanza in sede ectopica. L’ecografia permette inoltre il riconoscimento di versamenti ematici in sede pelvica e/o addominale.

 

Trattamenti

La gravidanza ectopica può essere trattata:

  • Nei casi precoci, senza alcuna terapia (risoluzione spontanea) o attraverso una terapia medica a base di metotrexate (un chemioterapico che impedisce la crescita cellulare della gravidanza).
  • Nei casi più avanzati o sintomatici, oppure quando la terapia farmacologica ha fallito, tramite la chirurgia laparoscopica. A seconda dei casi, si procede alla rimozione della tuba interessata (salpingectomia) o alla rimozione della sola gravidanza ectopica.

 

Herpes genitale

Herpes genitale

 

La causa dell’Herpes genitale risiede nel Virus Herpes simplex, della stessa famiglia di quello che colpisce le labbra, quando il virus agisce in modo problematico sui genitali maschili ma anche femminili, possono presentarsi sintomatologie fastidiose così come anche ulteriori complicanze nelle lesioni sulle aree di interesse delle labbra. A volte però non provoca alcun sintomo e quindi la persona non sa di essere contagiosa.

La trasmissione avviene generalmente per via sessuale e tende ad agire nell’uomo sullo scroto, la punta del pen e nella donna sulla vulva, la vagina e il collo dell’utero; in entrambi l’uretra e la zona anale e perianale. Si presenta con piccole vescicole raggruppate che tendono a regredire da sole nel giro di una o due settimane. In alcuni casi si manifesta con dolore, bruciore e prurito, in altre con febbre, emicrania, dolori muscolari, difficoltà a urinare.

 

Che cos’è l’Herpes Genitale?

L’Herpes genitale è un’infezione virale di alta frequenza di episodi e avviene durante i rapporti sessuali. Si manifesta con biancastre vescicole raggruppate in un’area infiammata che provocano prurito, dolore e disagio.

 

Quali sono le cause dell’Herpes genitale?

L’Herpes genitale è un virus a trasmissione sessuale. Si trasmette, quindi, durante un rapporto attraverso il contatto della pelle se il partner è malato. Spesso il virus non provoca sintomi e quindi la persona può essere inconsapevole di ospitarlo. Sembra che il virus si trasmetta più facilmente dall’uomo alla donna. Le cause dell’infezione si possono addebitare anche alla debolezza del sistema immunitario, in caso di stress, malattia, durante le mestruazioni.

 

Quali sono i sintomi dell’Herpes genitale?

I primi sintomi dell’Herpes genitale sono dolore e prurito.

A pochi giorni dall’infezione possono formarsi piccole vescicole rosse o bianche. Spesso si formano delle ulcerazioni dolorose superficiali o più profonde, che possono sanguinare. In linea di massimo la guarigione avviene in poche settimane da sole. Nella fase successiva l’infezione tende a recidivare causando sintomi simili a quelli di una influenza;

  • febbre;
  • dolori muscolari;
  • mal di testa;
  • malessere generale;
  • linfonodi inguinali gonfi.

 

Come prevenire l’Herpes genitale?

La prevenzione dell’Herpes genitale è analoga a tutte le altre malattie sessualmente trasmissibili e quindi richiede astensione sessuale quando si sa di essere colpiti dal virus, o l’uso di un preservativo nuovo durante ogni atto sessuale.

Le donne che sono in gravidanza o che sospettano di essere incinta devono avvertire il proprio medico curante che valuterà la necessità di una terapia antivirale.

 

Diagnosi

La diagnosi di Herpes genitale si ottiene con la semplice visita dello specialista. Basta, infatti, l’osservazione della parte malata per giungere alla diagnosi.

Per un accertamento più completo si può eseguire l’esame citologico prelevando le cellule dalle vescicole.

Considerata la remissione spontanea del virus in poche settimane, spesso altri mezzi diagnostici sono superflui. Comunque, è possibile rilevare la presenza precedente o attuale del virus attraverso l’esame del sangue per la ricerca degli anticorpi specifici.

 

Trattamenti

Il trattamento avviene localmente o per via sistemica. Localmente si possono applicare le creme antierpetiche che però non sono utili in vagina o sul collo dell’utero. La terapia sistemica con antivirale tipo Aciclovir permette di ridurre i sintomi ma non previene le recidive.

Idrossicobalamina

Idrossicobalamina

 

Si utilizza nel trattamento dell’anemia e della carenza di vitamina B12. Viene anche impiegata per effettuare il Test di Schilling.

 

Che cos’è l’idrossicobalamina?

E’ una vitamina che aumenta il livello di vitamina B12 nell’organismo.

 

Come si assume l’idrossicobalamina?

Viene somministrata tramite iniezioni intramuscolari.

 

Effetti collaterali dell’idrossicobalamina

Se assunta in piccole dosi, il farmaco non è associato alla comparsa di alcun effetto indesiderato

 

È però importante ricorrere subito alle cure di un medico in caso di:

rash

orticaria

prurito

difficoltà a respirare

senso di pesantezza, oppressione o dolore al petto

dolori alle gambe

gonfiore

dolore o arrossamenti al sito di iniezione

gonfiore a bocca, volto, labbra o lingua

variazioni della pressione del sangue

scariche di diarrea

svenimenti

vampate di calore

 

Controindicazioni e avvertenze

Prima della somministrazione è importante rendere edotto il medico:

circa la presenza di eventuali allergie al principio attivo, ai suoi eccipienti, a qualsiasi altro farmaco, ad alimenti o ad altre sostanze

dei medicinali, dei fitoterapici e degli integratori già assunti in passato, in particolare omeprazolo

delle malattie e dei problemi di salute di cui si soffre (o si sia nel pregresso sofferto)

in caso di donne gravide o in fase di allattamento

Iloperidone

Iloperidone

 

S’impiega per la cura dei sintomi della schizofrenia.

 

Che cos’è l’iloperidone?

E’ un antipsicotico atipico che modifica l’attività cerebrale dei neurotrasmettitori dopamina e serotonina.

 

Come si assume l’iloperidone?

Si somministra via bocca, sotto forma di compresse da assumere in genere due volte al giorno.

È probabile che il curante ne prescriva un dosaggio inizialmente basso per poi aumentarlo in caso di necessità.

 

Effetti collaterali dell’iloperidone

Può influenzare le capacità di ragionamento e di movimento. Può inoltre condurre a iperglicemia e aumentare il rischio di colpo di calore.

La sua somministrazione può essere pericolosa in presenza di alcune forme di demenza.

Fra gli altri suoi possibili effetti indesiderati sono inclusi:

negli uomini, problemi nella sfera sessuale

dolori a livello articolare

aumento di peso corporeo

senso di nausea

scariche di diarrea

aumento di volume delle mammelle

perdita di liquidi dai capezzoli

mestruazioni assenti

male allo stomaco

fauci secche

sensazione di sonnolenza

 

È opportuno contattare subito un medico in caso di:

rash

orticaria

prurito

difficoltà a respirare

senso di pesantezza o oppressione al petto

inspiegabile febbre

rigidità a livello muscolare

stato di confusione

sudorazioni

erezioni dolorose che durano per ore

gonfiore a bocca, volto, labbra o lingua

capogiri

battito accelerato, irregolare o pesante

movimenti incontrollabili del volto

sintomi convulsivi

mal di gola, febbre, brividi e altri sintomi di un’infezione in corso

 

Controindicazioni e avvertenze

Prima di assumerlo è importante informare il medico:

circa la presenza di allergie al principio attivo, ai suoi eccipienti, ad altri farmaci, ad altre sostanze o ad alimenti

dei medicinali, dei fitoterapici e degli integratori già assunti in passato, in particolare amiodarone, antidepressivi, antifungini, bupropione, pentamidina, procainamide, chinidina, sedativi, farmaci per dormire, sotalolo, tioridazina, clorpromazina, claritromicina, fluoxetina, gatifloxacina, inibitori della proteasi dell’HIV, ORLAAM, farmaci per la pressione alta, psicofarmaci, anticonvulsivanti, metadone, moxifloxacina, nefazodone, paroxetina e tranquillanti

se si soffre (o si è sofferto nel pregresso) di bassi livelli ematici di potassio o magnesio, convulsioni, tumore al seno, prolungamento dell’intervallo QT, battito cardiaco rallentato o irregolare, malattie cardiache o epatiche, globuli bianchi bassi

se si hanno precedenti di riduzione dei livelli di cellule del sangue in seguito all’assunzione di un farmaco

in caso di recente infarto

se si ha mai fatto uso di droghe o abuso di farmaci

in caso di difficoltà a deglutire

in caso di donne gravide o in fase di allattamento

Il trattamento può influenzare le capacità di guida o di manovra di macchinari pericolosi.

Durante l’assunzione del farmaco è bene prestare attenzione quando ci si erge dalla posizione sdraiata o seduta, soprattutto nei primi giorni di trattamento e quando se ne aumentano le dosi; ciò a causa dei possibili capogiri scatenabili dal principio attivo.

Imatinib

Imatinib

 

Si utilizza per trattare alcuni tipi di leucemia e altre forme tumorali che colpiscono le cellule del sangue.

Trova altresì applicazione nella cura dei tumori stromali gastrointestinali (GIST) e – qualora non possa essere trattato chirurgicamente, si sia esteso ad altre parti dell’organismo o si tratti di una recidiva – il dermatofibrosarcoma protuberans.

 

Che cos’è l’imatinib?

Esso blocca l’attività di una proteina alterata nelle cellule del tumore che le induce a moltiplicarsi. Attraverso questa inibizione, il farmaco aiuta a bloccare la diffusione delle cellule tumorali.

 

Come si assume l’imatinib?

Viene somministrato sotto forma di compresse. Deve di solito essere assunto a stomaco pieno, deglutendolo con abbondante acqua, una o due volte al giorno.

Durante la cura, il medico può aumentare o ridurre il dosaggio di farmaco già prescritto.

 

Effetti collaterali dell’imatinib

Fra i suoi possibili effetti indesiderati si possono includere:

conati di vomito

calo dell’appetito

indigestione

dolori a livello articolare

crampi a livello muscolare

sintomi depressivi

stato d’ansia

scariche di diarrea

stato di costipazione

meteorismo

senso di nausea

sudorazioni notturne

abbondante lacrimazione

 

È importante ricorrere subito alle cure di un medico in caso di:

rash o piaghe

orticaria

prurito

difficoltà a respirare

senso di pesantezza o oppressione o dolore al petto

sangue nelle feci

emorragie o lividi

mal di gola, febbre, brividi e altri segnali di un’infezione in corso

eccessive stanchezza o debolezza

mal di testa

capogiri

gonfiore a bocca, volto, labbra o lingua, mani, piedi, caviglie o polpacci

borse sotto agli occhi

aumento di peso corporeo

fiato corto

battito accelerato o irregolare o colpi al petto

stato d’insonnia

svenimenti

espettorato rosa o rosso

minzione in aumento, soprattutto durante la notte

stato febbrile

ittero

 

Controindicazioni e avvertenze

Prima della sua assunzione è importante informare il medico:

circa la presenza di eventuali allergie al principio attivo, ai suoi eccipienti, a qualsiasi altro farmaco, ad alimenti o ad altre sostanze

dei medicinali, dei fitoterapici e degli integratori già assunti in passato, in particolare paracetamolo, antibiotici, anticoagulanti, farmaci contro l’ansia, anticonvulsivanti, sedativi, pillole per dormire, tranquillanti, iperico, antifungini, calcio antagonisti, statine, ciclosporina, dexametasone, contraccettivi ormonali e pimozide

se si soffre (o si è sofferto in pregresso) di pressione alta, malattie cardiache, polmonari, alla tiroide o epatiche, battito cardiaco irregolare e diabete

se si assumono droghe

se si bevono grandi quantità di alcolici (o se lo si faceva in passato)

in caso di donne gravide o in allattamento

in caso di infarto

se si è fumatori

In caso di diarrea, durante la cura non bisogna assumere alcun antidiarroico senza preventiva autorizzazione del medico.

E’ altresì opportuno discutere con il curante dei rischi associati al consumo di pompelmo (o del suo succo) durante la terapia.

Imipenem + cilastina

Imipenem + cilastina

 

Si utilizza per trattare alcune infezioni batteriche.

 

Che cos’è l’imipenem + cilastina?

Esso esplica la sua azione uccidendo i batteri e bloccando la costruzione della loro parete cellulare.

 

Come si assume l’imipenem + cilastina?

Può essere somministrato a mezzo di infusioni in vena o iniezioni intramuscolari.

 

Effetti collaterali dell’imipenem + cilastina

L’uso a lungo termine o ripetuto di questo farmaco può condurre alla comparsa di una seconda infezione.

Fra gli altri suoi possibili effetti indesiderati sono inclusi:

lieve diarrea

senso di nausea

conati di vomito

lievi dolori, gonfiori o arrossamenti attorno al punto di iniezione

 

È importante rivolgersi subito ad un medico in caso di:

battito accelerato o irregolare

febbre, brividi o mal di gola

scomparsa dell’udito

dolori o sensibilità a livello articolare

sbalzi d’umore o cambiamenti del comportamento

intorpidimento o pizzicore alla pelle

pelle arrossata, gonfia, con vesciche o che si desquama

sintomi convulsivi

diarrea grave

rash

orticaria

prurito

difficoltà a respirare

senso di pesantezza o oppressione o dolore al petto

gonfiore a bocca, volto, labbra o lingua

sangue nelle feci

urine scure

minzione ridotta

gravi dolori o crampi allo stomaco

fiato corto

gonfiore a mani o piedi

gonfiore o arrossamenti al punto di iniezione

anomali tremori o movimenti muscolari

emorragie o lividi

eccessive stanchezza o debolezza

perdite vaginali o insoliti cattivi odori

gonfiore o sensibilità delle vene

macchie bianche all’interno della bocca

ittero

 

Controindicazioni e avvertenze

Può essere controindicato in caso di grave shock, blocco cardiaco e assunzione di probenecid. Nei bambini può non essere prescritto in caso di peso inferiore ai 30 kg associato a problemi renali e in caso di infezioni al sistema nervoso.

Prima della somministrazione è importante rendere edotto il medico:

circa la presenza di eventuali allergie al principio attivo, ai suoi eccipienti, a qualsiasi altro farmaco (in particolare ad antibiotici o ad anestetici), ad alimenti o ad altre sostanze

dei medicinali, dei fitoterapici e degli integratori già assunti in passato (in particolare beta-bloccanti, cimetidina, mexiletina, probenecid, succinilcolina, ganciclovir, amiodarone, divalproex, acido valproico e qualsiasi farmaco possa aumentare il rischio di convulsioni)

se si soffre (o si è sofferto nel pregresso) di pressione alta, convulsioni, problemi renali, epatici o cardiaci, o problemi al sistema nervoso centrale

se si è in stato di shock

se si è stati molto malati o molto deboli

se si è sottoposti a dialisi

in caso di donne gravide o in fase di allattamento

Può compromettere le capacità di guida e di manovra di macchinari pericolosi. Tale effetto indesiderato può essere aggravato dall’alcol e da alcuni farmaci.

È importante far sapere a medici, chirurghi e dentisti che si sta assumendo imipenem + cilastatina.

Impianto di dispositivo antibradicardico (pacemaker)

Impianto di dispositivo antibradicardico (pacemaker)

 

Il Pace Maker definitivo è un dispositivo che può erogare impulsi elettrici mirati a consentire il battito cardiaco in tutti quei pazienti in cui risulti necessario, per la presenza di sintomi secondari a frequenza cardiaca eccessivamente bassa.

 

La bradicardia patologica (battito eccessivamente lento) può essere secondaria o ad un’alterata genesi dell’impulso elettrico (es. malattia del nodo del seno, blocchi seno-atriali) o ad un’alterata conduzione dello stesso all’interno del sistema di conduzione elettrico del cuore (es. blocchi atrioventricolari di II e III grado).

Nei pazienti colpiti da queste patologie solitamente si manifestano sintomi come debolezza, mancanza di fiato, giramenti di testa e, in alcuni casi, episodi sincopali.

 

Come viene impiantato il pacemaker?

Il Pace Maker viene posizionato in anestesia locale, mentre il paziente è cosciente e può collaborare. Nella prima parte dell’impianto si effettua il posizionamento degli elettrocateteri, ovvero i “fili elettrici” che arrivano al cuore; il loro numero può variare da uno a tre in base al tipo di dispositivo che risulta necessario impiantare.

Si inseriscono gli elettricateteri all’interno di una vena (succlavia o cefalica, generalmente sinistre, a seconda dell’anatomia del singolo paziente e delle preferenze dell’operatore) selezionata utilizzando una delle diverse tecniche a disposizione.

Dopo essere stati inseriti nel sistema venoso, gli elettrocateteri vengono spinti sotto guida fluoroscopica (raggi X) all’interno delle camere cardiache (atrio destro, ventricolo destro, seno coronarico) e, utilizzando i computer analizzatori, posizionati nei punti dove riescono a sentire meglio l’attività cardiaca e dove possono stimolare il cuore usando la minore energia possibile. Una volta verificata la stabilità dei cateteri e dei loro parametri elettrici, essi vengono fissati al muscolo sottostante e in seguito collegati al Pace Maker; i generatori dei modelli di ultima generazione hanno dimensioni particolarmente contenute, e vengono alloggiati sottocute mediante una piccola incisione che in seguito viene richiusa tramite un filo di sutura (spesso riassorbibile, per cui successivamente non si rende necessario rimuovere i punti).

 

Durata dell’intervento

L’intervento per l’impianto di Pace Maker dura in media dai 45 ai 90 minuti.

 

È doloroso o pericoloso?

Tra le complicanze più comunemente legate alle manovre di impianto troviamo la formazione di un ematoma locale in sede di impianto (che di solito si riassorbe spontaneamente dopo qualche giorno), la possibilità di danno ai vasi venosi utilizzati per l’accesso (con conseguente trombosi ed eventuale flebite), eventuale pneumotorace in caso di puntura della vena succlavia (passaggio di aria all’interno della cavitá pleurica, nella maggior parte dei casi asintomatico ed autirisolventesi, che di rado richiede un posizionamento di drenaggio temporaneo), eventuale versamento pericardico secondario a perforazione della parete miocardica degli elettrocateteri (evenienza che si verifica molto raramente e che in qualche caso può richiedere il posizionamento di drenaggio temporaneo).

Impianto di dispositivo antitachicardico (defibrillatore)

Impianto di dispositivo antitachicardico (defibrillatore)

 

Che cos’è il defibrillatore automatico impiantabile (ICD)?

Il defibrillatore automatico impiantabile (ICD) è un dispositivo realizzato per il trattamento di aritmie ventricolari potenzialmente rischiose per la vita del paziente. I pazienti che possono ricevere tale dispositivo sono quelli sopravvissuti a un arresto cardiocircolatorio, quelli colpiti da cardiopatie potenzialmente a rischio di sviluppare aritmie ventricolari pericolose e da tachicardie ventricolari non responsive a terapia medica e per le quali non vi sia indicazione all’ablazione transcatetere. In aggiunta ad una funzione antitachicardica, i defibrillatori svolgono anche una funzione antibradicardica, per cui risultano in grado di stimolare il cuore nel caso in cui la frequenza cardiaca diventi troppo bassa (analogamente al pacemaker).

 

Funzionamento dell’impianto del defibrillatore

L’impianto del defibrillatore segue le stesse fasi dell’impianto di pacemaker. Nella prima parte si verifica il posizionamento degli elettrocateteri, ovvero i “fili elettrici” che arrivano al cuore; il loro numero può variare da uno a tre in base al tipo di dispositivo che è necessario impiantare.

Si inseriscono gli elettrocateteri all’interno di una vena (succlavia o cefalica, generalmente sinistre, a seconda dell’anatomia del singolo paziente e delle preferenze dell’Operatore) selezionata utilizzando una delle diverse tecniche disponibili. Quando vengono introdotti nel sistema venoso, gli elettrocateteri sono spinti sotto guida fluoroscopica (raggi X) all’interno delle camere cardiache (atrio destro, ventricolo destro, seno coronarico) e, attraverso l’uso di computer analizzatori, posizionati nei punti dove possono sentire meglio l’attività cardiaca e dove riescono a stimolare il cuore spendendo la minore energia possibile.

Una volta verificata la stabilità dei cateteri e dei loro parametri elettrici, essi vengono fissati al muscolo sottostante e in seguito collegati al defibrillatore; il generatore è posizionato sottocute mediante una piccola incisione che viene in seguito richiusa attraverso il filo di sutura (che spesso si può riassorbire, quindi non risulta necessario rimuovere successivamente i punti).

 

Come avviene la procedura?

Il posizionamento del defibrillatore si esegue in anestesia locale, mentre il paziente è cosciente e collabora. La durata dell’impianto può variare in media dai 45 ai 90 minuti.

Il tutto viene effettuato in regime di ricovero.

Dopo l’impianto e un breve periodo di allettamento, si eseguono un controllo elettronico del dispositivo ed una radiografia del torace per poter valutare il posizionamento degli elettrocateteri.

 

L’impianto del dispositivo antitachicardiaco è doloroso o pericoloso?

In genere la procedura viene ben tollerata; in caso di dolore si aumenta il dosaggio di anestetico locale o, più raramente, si pratica una sedazione profonda con assistenza anestesiologica.

 

Ci sono complicanze?

Tra le complicanze più di frequente collegate alle manovre di impianto si trovano la formazione di un ematoma locale in sede di impianto (che solitamente si riassorbe spontaneamente dopo qualche giorno), un possibile danno dei vasi venosi utilizzati per l’accesso (con conseguente trombosi ed eventuale flebite), eventuale pneumotorace in caso di puntura della vena succlavia (passaggio di aria all’interno della cavità pleurica, nella maggior parte dei casi asintomatico ed autorisolventesi, che di rado richiede un posizionamento di drenaggio temporaneo), eventuale versamento pericardico secondario a perforazione della parete miocardica degli elettrocateteri (evenienza che si verifica molto raramente e che in alcuni casi può comportare un posizionamento di drenaggio temporaneo).

 

Follow-up

Dopo circa 7-10 giorni dall’impianto si procede ad una valutazione ambulatoriale della ferita chirurgica e, se viene utilizzato un filo di sutura non riassorbibile, si rimuovono i punti di sutura.

I pazienti portatori di defibrillatore impiantabile devono in seguito sottoporsi ad un controllo semestrale del dispositivo.

 

 

Infarto

Infarto

 

Che cos’è l’infarto?

Con il termine infarto si indica la morte o necrosi di un tessuto o di un organo che non riescono ad avere un adeguato apporto di sangue e ossigeno dalla circolazione arteriosa a loro dedicata. Quando un vaso arterioso non ha un buon flusso, o non è capace di aumentarlo a seconda delle esigenze del territorio che irrora, si manifesta l’ischemia dei tessuti a valle del vaso o l’infarto stesso, nel caso in cui l’ischemia venga sufficientemente prolungata da provocare necrosi.

Quali sono le caratteristiche dell’infarto?

È possibile che l’infarto si manifesti in molti distretti dell’organismo umano; tuttavia con questo termine si indica più comunemente l’infarto cardiaco, che colpisce il tessuto muscolare del cuore o miocardio, e l’infarto cerebrale, noto comunemente come ictus ischemico. Insieme, l’infarto cardiaco e cerebrale rappresentano anche la più comune causa di morte dei paesi sviluppati. Se l’evento non ha avuto un esito fatale, la necrosi del tessuto colpito da infarto viene riparata attraverso un processo di cicatrizzazione. In questo modo l’organo interessato perde una parte della sua funzionalità.

Tra le forme più frequenti di infarto troviamo:

L’infarto del miocardio

L’infarto cerebrale

L’infarto intestinale

L’infarto polmonare

Da cosa può essere causato l’infarto?

La causa più frequente di infarto cardiaco o cerebrale è la malattia aterosclerotica delle arterie che portano il sangue a cuore e cervello. L’aterosclerosi interessa gli strati più interni delle pareti vascolari ed è caratterizzata dalla formazione di lesioni o placche ricche di grasso (colesterolo), cellule di parete in fase di proliferazione e cellule infiammatorie.

Le placche aterosclerotiche, che possono essere localizzate o diffuse, comportano spesso il restringimento del lume del vaso e vengono complicate con la formazione di un coagulo sulla loro superficie. Tutto ciò può produrre la brusca occlusione del vaso stesso, determinando un’ischemia prolungata e infarto dei tessuti a valle.

Con quali sintomi si manifesta l’infarto?

Ci sono sintomi specifici per ogni tipo di infarto; per cui è meglio consultare la singola scheda

Quali sono i fattori di rischio?

I fattori di rischio per l’aterosclerosi e l’infarto sono suddivisi in fattori modificabili e fattori non modificabili.

Fattori non modificabili:

Età: il rischio di infarto, come per quasi tutte le patologie cardiovascolari, aumenta con l’avanzare dell’età.

Sesso: l’aterosclerosi e l’infarto sono più frequenti negli uomini che nelle donne, in età giovanile e matura. Dopo la menopausa femminile il rischio di aterosclerosi e infarto è analogo negli uomini e nelle donne.

Familiarità: chi presenta nella propria storia familiare casi di malattia cardiovascolare acuta è maggiormente a rischio di infarto, in particolare se la patologia cardiovascolare del congiunto si è manifestata in età giovanile

Fattori modificabili:

Stile di vita: fra i più importanti fattori di rischio cardiovascolare troviamo sedentarietà e fumo di tabacco. Per questo motivo il metodo migliore per prevenire i problemi cardiovascolari e per tutelare la propria salute è smettere di fumare e avere una vita attiva, facendo regolarmente almeno 20-30 minuti di attività fisica al giorno.

Alimentazione: un’alimentazione con troppe calorie e troppi grassi contribuisce ad aumentare il livello di colesterolo e di altri grassi (lipidi) nel sangue, rendendo molto più probabili l’aterosclerosi e l’infarto. Una dieta sana ed equilibrata risulta essere molto importante per la prevenzione delle malattie cardiovascolari.

Ipertensione arteriosa: ci possono essere varie cause alla base della “pressione alta” o ipertensione arteriosa, che colpisce una larga fetta della popolazione di età superiore ai 50 anni. Si associa ad una aumentata probabilità di sviluppare l’aterosclerosi e le sue complicanze, come l’infarto cardiaco o cerebrale. Condiziona un aumento del lavoro cardiaco che si trasforma col tempo in un progressivo malfunzionamento del cuore e nella comparsa di scompenso cardiocircolatorio.

Diabete: l’eccesso di glucosio nel sangue provoca danni alle arterie e facilita l’aterosclerosi, l’infarto miocardico e cerebrale e il danno di organi importanti come il rene, con la comparsa di insufficienza renale, a sua volta correlata ad aumentato rischio cardiovascolare.

Diagnosi

Per la diagnosi dei vari tipi di infarto, si rimanda alle schede specifiche.

Trattamenti

I trattamenti per l’infarto sono diversi a seconda della sede e delle condizioni mediche generali del paziente, per cui verranno riportati nelle rispettive sezioni.

Per i soggetti colpiti da infarto cardiaco o cerebrale, al trattamento ospedaliero fa seguito la prosecuzione di una terapia medica per bocca al proprio domicilio e la forte raccomandazione alla correzione dei fattori di rischio cardiovascolari modificabili. Inoltre vengono fornite indicazioni su come correggere eventualmente lo stile di vita e il regime alimentare e tali variazioni possono contribuire in modo significativo alla prevenzione di un secondo episodio.

 

 

 

Infarto del miocardio

Infarto del miocardio

 

L’infarto è la necrosi di un tessuto o di un organo che non ricevono un adeguato apporto di sangue e ossigeno dalla circolazione arteriosa. Con il termine di infarto miocardico si intende la necrosi di una parte del muscolo cardiaco a seguito dell’ostruzione di una delle coronarie, arterie deputate alla sua irrorazione.

 

Come si manifesta?

L’infarto miocardico si può manifestare a riposo, dopo un’emozione intensa, durante uno sforzo fisico rilevante o quando lo sforzo è già terminato. Il suo esordio clinico è brusco ed è in prevalenza caratterizzato da sintomi tipici, che sono quindi facilmente identificabili nella maggior parte dei casi. E’ una malattia associata ad elevata mortalità se non adeguatamente trattata, che richiede l’attivazione del sistema di soccorso urgente sul territorio (118 o 112) e l’arrivo del paziente presso un ospedale dotato di tutte le potenzialità di trattamento della malattia, nel più breve tempo possibile. Le complicanze dell’infarto in fase acuta possono essere:

-lo shock, con grave prostrazione del paziente, bassa pressione arteriosa, tachicardia ed estremità fredde e umide a causa della vasta estensione dell’area di necrosi

-l’edema polmonare acuto, con grave mancanza di respiro a riposo

-le aritmie, alcune delle quali potenzialmente fatali

-l’ischemia di altri organi, per la scarsa capacità del cuore di svolgere la propria azione di pompa vitale per la circolazione del sangue.

 

Quali sono le cause dell’infarto del miocardio?

L’infarto miocardico è prodotto dall’occlusione parziale o totale di un’arteria coronarica. Questo avviene per la formazione di un coagulo (o trombo) su una delle lesioni aterosclerotiche che possono essere presenti sulla parete vascolare e che sono a stretto contatto con il lume interno. Non è ad oggi nota ne’ la causa dell’aterosclerosi ne’ della formazione improvvisa di un coagulo sulla placca coronarica: sono state avanzate diverse ipotesi tra le quali l’infiammazione dei vasi di varia natura e l’infezione da parte di germi molto diffusi nei paesi occidentali.

In rari casi l’infarto è la conseguenza di una malformazione coronarica (con restringimento del lume e formazione comunque di un trombo) o dello scollamento tra i foglietti della parete coronarica (dissezione) che porta quello interno a sporgere nel lume restringendolo in modo rilevante e predisponendolo alla chiusura totale (anche in questo caso per trombo o per compressione meccanica). Sono state descritte negli ultimi anni forme di infarto cardiaco che si manifestano in assenza di malattia coronarica e con un interessamento prevalente dell’apice del cuore.

La sindrome di Takotsubo è un infarto miocardico dell’apice che esordisce dopo un intenso stress emotivo e che colpisce prevalentemente le donne. E’ caratterizzata da una fase iniziale in cui la porzione di muscolo cardiaco che non si contrae può essere abbastanza estesa, coinvolgendo l’apice e i segmenti intermedi, con tendenziale buon recupero della contrattilità a distanza. Le coronarie sono indenni da restringimenti o da occlusioni. Il cuore, osservato all’ecocardiogramma, tende ad assumere un aspetto che ricorda il cestello utilizzato dai pescatori in Giappone, da cui il nome della sindrome che è stato proposto dai ricercatori giapponesi che l’hanno descritta per primi.

L’infarto resta anche oggi una malattia mortale. La mortalità è tanto maggiore quanto più tardivo è l’accesso del paziente con infarto miocardico acuto ad un ospedale nel quale possa essere trattato adeguatamente. E’ opportuno ricorrere al 118 in tutti i casi in cui si sospetti la presenza di un infarto cardiaco per iniziare al più presto il monitoraggio del paziente, trattare tempestivamente le complicanze fatali che possono verificarsi nelle prime ore (aritmie gravi come la fibrillazione ventricolare) e cominciare a somministrare i primi farmaci efficaci sul coagulo o trombo coronarico.

Quali sono i sintomi?

I sintomi più frequenti sono il dolore al petto, la sudorazione fredda profusa, uno stato di malessere profondo, la nausea e il vomito. Il dolore, definito anche precordiale (prossimo alla sede intratoracica del cuore) o retrosternale (il paziente lo attribuisce allo spazio toracico che sta dietro allo sterno) si può irradiare ai vasi del collo e alla gola, alla mandibola (soprattutto ramo sinistro), alla porzione di colonna vertebrale che sta fra le due scapole, agli arti superiori (il sinistro e’ coinvolto più spesso del destro) e allo stomaco.

Spesso il dolore al petto compare per brevi intervalli temporali e si risolve spontaneamente, prima di manifestarsi in modo più duraturo, con il corollario dei sintomi già descritto. Quando il dolore al petto, spontaneo o da sforzo, si manifesta per una durata massima di 30 minuti si parla di angina pectoris: una condizione di ischemia del cuore che non arriva ad essere così prolungata da provocare necrosi. Ci sono pazienti che lamentano l’angina pectoris da ore o giorni a mesi o anni prima di un vero e proprio infarto.

L’infarto miocardico è un’esperienza soggettiva: non tutte le persone che ne sono colpite descrivono la presenza degli stessi sintomi. Normalmente, un episodio acuto dura circa 30-40 minuti, ma l’intensità dei sintomi stessi può variare notevolmente. In alcuni casi il paziente riferisce di avvertire una sensazione di morte imminente, che lo porta a cercare il soccorso medico. Possono essere riportati anche stordimento e vertigini, mancanza di respiro in assenza di dolore toracico (soprattutto nei pazienti diabetici), svenimento con perdita di coscienza

Molte persone confondono l’infarto miocardico con l’arresto cardiaco. Sebbene l’infarto del miocardio possa causare l’arresto cardiaco, non ne è l’unica causa ed un infarto miocardico non determina necessariamente l’arresto cardiaco.

 

 

Quali sono i fattori di rischio?

I fattori di rischio per l’aterosclerosi e l’infarto sono distinti in fattori modificabili e fattori non modificabili.

Fattori non modificabili:

-età: il rischio di infarto, come per quasi tutte le patologie cardiovascolari, aumenta con l’avanzare dell’età.

-sesso: l’aterosclerosi e l’infarto sono più comuni negli uomini rispetto alle donne per le decadi dell’età’ giovanile e matura. Dopo la menopausa femminile il rischio di aterosclerosi e infarto e’ analogo negli uomini e nelle donne.

-familiarità: chi presenta nella propria storia familiare casi di malattia cardiovascolare acuta è maggiormente a rischio di infarto, soprattutto se la patologia cardiovascolare del congiunto si e’ manifestata in età giovanile

Fattori modificabili:

-stile di vita: sedentarietà e fumo di tabacco sono fra i più importanti fattori di rischio cardiovascolare. Smettere di fumare e condurre una vita attiva, facendo regolarmente almeno 20-30 minuti di attività fisica al giorno, è il metodo migliore per prevenire i problemi cardiovascolari e per tutelare la propria salute.

-alimentazione: Una dieta troppo ricca di calorie e grassi contribuisce ad aumentare il livello di colesterolo e di altri grassi (lipidi) nel sangue, rendendo molto più probabili l’aterosclerosi e l’infarto. Un’alimentazione sana ed equilibrata ha una grande valenza in termini di prevenzione delle malattie cardiovascolari.

-ipertensione arteriosa: la “pressione alta” o ipertensione arteriosa può avere varie cause e interessa una larga fetta della popolazione di età superiore ai 50 anni. Si associa ad una aumentata probabilità di sviluppare l’aterosclerosi e le sue complicanze, come l’infarto cardiaco o cerebrale. Condiziona un aumento del lavoro cardiaco che si traduce nel tempo con il progressivo malfunzionamento del cuore e con la comparsa di scompenso cardiocircolatorio

-diabete: l’eccesso di glucosio nel sangue danneggia le arterie e favorisce l’aterosclerosi, l’infarto miocardico e cerebrale e il danno di organi importanti come il rene, con la comparsa di insufficienza renale, a sua volta associata ad aumentato rischio cardiovascolare.

-droghe: l’uso di droghe può aumentare notevolmente la possibilità di infarto miocardico ed abbassare l’età media in cui si manifesta.

 

 

 

Diagnosi

L’infarto viene generalmente diagnosticato a partire dai sintomi riferiti dal paziente. Nel caso di sospetto infarto del miocardio, è possibile confermare l’ipotesi diagnostica mediante l’esecuzione di un elettrocardiogramma.

Attraverso gli esami del sangue, è possibile diagnosticare un infarto rilevando la presenza di alcune sostanze (gli enzimi cardiaci), che vengono rilasciate nel sangue dalle cellule del muscolo cardiaco che sono andate incontro a morte e permangono in circolo fino ad un paio di settimane dopo l’evento.

È possibile verificare la diagnosi di infarto del miocardio e valutare i danni causati dallo stesso attraverso un ecocardiogramma con Color Doppler. La malattia delle coronarie viene valutata mediante coronarografia con impiego del mezzo di contrasto. Dopo un infarto si può valutare indirettamente il grado di efficienza della circolazione coronarica e l’eventuale comparsa di ischemia mediante Elettrocardiogramma da sforzo, Ecocardiogramma da sforzo o da stress farmacologico, Scintigrafia miocardica da sforzo o da stress farmacologico e Risonanza Magnetica da stress farmacologico.

 

Trattamenti

Il primo obiettivo del trattamento dell’infarto miocardico, all’esordio della malattia, è quello di promuovere la riapertura della coronaria che si è occlusa. In questa fase il tempo risparmiato tra l’arrivo del paziente e la riapertura del vaso si traduce in un guadagno di muscolo cardiaco prima che venga danneggiato in modo irreversibile.

Il trattamento prevede la disostruzione del lume della coronaria mediante l’introduzione di un catetere dotato di palloncino gonfiabile all’apice, capace di passare attraverso il coagulo presente nel punto di massimo restringimento della coronaria stessa e di schiacciarne le componenti sulle pareti (angioplastica coronarica), e il posizionamento di una protesi a rete all’interno del vaso (stent) che contribuisce a mantenerlo aperto dopo la disostruzione.

In mancanza di angioplastica o della possibilità di raggiungere le coronarie con il catetere esistono anche farmaci che sono in grado di dissolvere il trombo dopo essere stati somministrati per via endovenosa (trombolitici) benché’ non utilizzabili in tutti i pazienti, in quanto associati alla possibilità di produrre emorragie anche gravi.

Altri farmaci, tra cui gli anticoagulanti, gli antiaggreganti, i betabloccanti, gli ACE inibitori e le statine, sono quasi sempre presenti nel corredo farmacologico del paziente colpito da infarto miocardico. Il loro uso va valutato in base al profilo di rischio emorragico del paziente, alla tolleranza individuale e alle controindicazioni che variano da soggetto a soggetto.

In tutti i casi in cui si sia rilevata una malattia coronarica grave o estesa e che non siano trattabili con l’angioplastica coronarica e lo stent si può ricorrere all’intervento di bypass coronarico che consiste nel creare chirurgicamente un canale di comunicazione fra l’aorta e la coronaria ristretta o ostruita a valle della lesione, mediante l’utilizzo di altre arterie (arteria mammaria interna) o vene (safena rimossa dagli arti inferiori). Normalmente, questo tipo di approccio non viene utilizzato in emergenza a meno che non vi sia assoluta necessità.

 

Prevenzione

La terapia prescritta alla dimissione prevede sempre l’Aspirina spesso associata ad un altro antiaggregante, che andrà mantenuto per un tempo variabile da un mese ad un anno, il betabloccante, l’ace-inibitore e la statina. Intolleranze individuali o la controindicazione assoluta ad uno di questi preparati può’ essere la causa della loro mancata prescrizione.

Questa terapia e’ spesso affiancata da altri preparati, secondo le caratteristiche individuali dei soggetti e le malattie associate. Lo scopo della terapia e’ quello di rallentare la progressione dell’aterosclerosi e di prevenire un secondo episodio infartuale, le sue temibili complicanze come la morte o l’ictus, e ridurre l’evoluzione verso un malfunzionamento del cuore e della circolazione (scompenso).

Ancora una volta la modificazione dello stile di vita può contribuire enormemente alla prevenzione.

Viene pertanto raccomandato di:

-ridurre il proprio peso corporeo fino al raggiungimento di un valore nella norma per età e sesso. La valutazione del peso corporeo viene fatta non solo in assoluto ma soprattutto come indice di massa corporea o BMI, unità di volume nella quale si tiene conto di peso e altezza, i cui valori normali sono stati condivisi dalla comunità scientifica internazionale.

-smettere di fumare, facendosi aiutare anche da centri specializzati ad assistere pazienti che non sono in grado di sostenere questa decisione da soli.

-praticare attività fisica regolarmente, con intensità variabile a seconda di età e condizioni generali di salute. È a questo proposito importante discutere con il proprio medico in merito ad un programma di allenamento adatto alle proprie caratteristiche.

-evitare cibi grassi, eccessivamente conditi o fritti. Non eccedere con alcool (un bicchiere di vino al pasto al giorno) e dolci. Privilegiare i grassi vegetali e i pasti a base di verdure, fibre, carni magre e pesce.

-limitare, per quanto possibile, le situazioni che possono essere fonte di stress, specialmente se queste tendono a protrarsi nel tempo.

 

 

Quali tecniche si usano per la riabilitazione?

Dopo un infarto miocardico può essere indicato un periodo di riabilitazione cardiologica. La stessa può essere fatta in regime di degenza o ambulatorialmente, secondo la gravità dell’infarto stesso, la capacità di recuperare la propria attività fisica da parte del paziente e le eventuali malattie extracardiache associate.

Le principali finalità della riabilitazione sono quelle di una graduale ripresa della capacità di esercizio individuale, di un assestamento della terapia che si avvicini il più possibile a quanto sarà assunto dal paziente nella vita extra-ospedaliera e, infine, di modificazione dello stile di vita.

Per le diverse modalità di esecuzione della riabilitazione e relativi programmi si rimanda alla sezione specifica.

Infertilità femminile

Infertilità femminile

 

L’infertilità femminile è la situazione patologica per cui una donna non può avere una gravidanza dopo 1-2 anni di rapporti intenzionalmente fertili, anche se in linea teorica per lei concepire ed avere un bambino. Si calcola che possa interessare il 15% circa delle donne.

Il fattore dell’età è connesso in modo imprescindibile alla riduzione di capacità riproduttiva, infatti a 30 anni la possibilità di concepire per ciclo fertile è intorno al 30-40%, mentre a 40 anni diventa del 10%.

 

Che cos’è l’infertilità femminile?

L’infertilità ostacola la possibilità per il sesso femminile di avere e portare a termine una gravidanza. Alla nascita, la donna possiede una riserva ovarica (circa 400 mila ovociti) che va progressivamente impoverendosi col passare dell’età, azzerandosi alla menopausa.

 

Dal punto di vista medico l’infertilità si accerta dopo 12 mesi di rapporti liberi e non protetti (6 mesi se la donna ha più di 35 anni o altri fattori di rischio) durante i quale non è stata raggiunta la gravidanza.

Occorre fare una distinzione tra infertilità e sterilità, la seconda identifica infatti l’impossibilità assoluta a concepire per una causa non rimovibile, anche se, nell’uso comune, i due termini vanno spesso a sovrapporsi.

 

Quali sono le cause dell’infertilità femminile?

Esistono numerose cause di infertilità femminile: alterazioni dell’apparato riproduttivo, malformazioni congenite, infezioni, disfunzioni ormonali. Solo in alcuni casi, invece, si parla di infertilità idiopatica, quando gli esami diagnostici non sono riusciti ad individuare alcuna causa specifica.

 

In sintesi, le cause di infertilità femminile, sono le seguenti:

Tubariche/pelviche: riduzione di funzione o chiusura delle tube di Falloppio, aderenze pelviche (in seguito a patologie infiammatorie o a pregressi interventi chirurgici)

 

Endometriosi: malattia frequente nell’età fertile, in cui isole di cellule endometriali (normalmente presenti solo all’interno della cavità uterina) migrano e colonizzano altri organi (più comunemente l’ovaio ed il peritoneo pelvico). Questa patologia può essere asintomatica, ma talora diventa invalidante. La sua presenza o le recidive di questa malattia, possono ridurre in modo severo le probabilità di concepimento

 

Ovulatorie/ormonali: irregolarità o mancanza di ovulazione, iperprolattinemia, sindrome dell’ovaio micropolicistico, riserva ovarica ridotta o assente

Cervicali: quando il muco presente nella cervice uterina è ostile al passaggio degli spermatozoi per una carenza di estrogeni, per fattori infettivi o per pregressi interventi chirurgici che hanno danneggiato le ghiandole cervicali. L’infertilità cervicale può essere dovuta, in rari casi, anche alla produzione, da parte della donna, di anticorpi diretti contro gli spermatozoi stessi

Uterine: presenza di malformazioni congenite dell’utero, fibromi o aderenze all’interno della cavità uterina oppure presenza di fattori infiammatori a carico dell’endometrio (la mucosa di rivestimento della cavità uterina)

Sconosciute: quando gli accertamenti non sono stati di grado di evidenziare una o più cause specifiche. Questa situazione va sotto il nome di infertilità idiopatica. Questa diagnosi dovrebbe essere correttamente definita come ‘insufficientemente indagata’, Vi si giunge per il lungo periodo di ricerca o per l’età dei partner, che non consentono un completamento delle indagini.

 

Diagnosi

Di seguito elenchiamo gli accertamenti che possono essere effettuati sulla partner femminile, nella diagnosi dell’ infertilità di coppia:

Dosaggi ormonali: FSH, LH, estradiolo nella prima metà del ciclo (2^-3^ giorno di mestruazione); progesterone e Prolattina nella seconda metà del ciclo; Ormone Antimulleriano (AMH); TSH. Questi esami hanno lo scopo principale di valutare la riserva ovarica, vale a dire il patrimonio di ovociti della donna e quindi il suo potenziale di fertilità.

 

Tampone vaginale: esame che valuta la presenza o meno di infezioni del tratto distale dell’apparato riproduttivo (vagina e collo dell’utero).

 

Ecografia pelvica transvaginale: permette di valutare l’anatomia dell’apparato riproduttivo femminile (utero ed annessi) e la presenza di eventuali alterazioni a suo carico (malformazioni uterine, fibromi, neoformazioni annessiali ecc). Con l’ecografia transvaginale è possibile valutare il numero e la crescita dei follicoli ovarici sia in condizioni basali che sotto stimolo.

 

Isterosonografia: è un esame attraverso il quale, dopo aver iniettato una soluzione salina sterile o altra sostanza apposita nella cavità uterina, è possibile valutare la normalità o meno della cavità uterina stessa, nonché la pervietà delle tube.

 

Ecografia tridimensionale (eco 3D) dell’utero: tecnologia che, attraverso una elaborazione rapida del volume del viscere, permette il riconoscimento di eventuali malformazioni congenite dell’utero. L’ecografia 3D, può essere utilizzata anche per lo studio degli annessi o in abbinamento alla sonoisterografia.

 

Isterosalpingografia: esame radiologico utilizzato per valutare la pervietà tubarica. Permette anche il riconoscimento di alcune patologie congenite o acquisite dell’utero.

 

Isteroscopia: tecnica endoscopica che, attraverso l’inserzione di uno strumento ottico collegato ad una telecamera in cavità uterina, permette una visione diretta della cavità endometriale ed il riconoscimento quindi di eventuali patologie a suo carico.

 

Laparoscopia: tecnica chirurgica che permette di vedere dentro l’addome attraverso uno strumento a fibre ottiche (il laparoscopio) collegato ad una telecamera. Dato il piccolo diametro del laparoscopio (da 2 a 10 mm), la procedura può essere eseguita “a cielo chiuso”, ossia senza praticare l’apertura dell’addome, ma ricorrendo ad incisioni di pochi millimetri. Attraverso la laparoscopia, è possibile visualizzare l’anatomia di utero ed annessi, valutare in modo molto preciso la funzionalità tubarica ed intervenire operativamente per risolvere alcune patologie (rimozioni di cisti, adesiolisi, asportazione di fibromi uterini ecc )

 

Trattamenti

Il trattamento dell’infertilità femminile dipende dalle cause dell’infertilità stessa. Per questo motivo, è necessario che la fase diagnostica sia eseguita nel modo più preciso e completo possibile.

Le tecniche di Procreazione medicalmente assistita (PMA) consentono di aumentare le probabilità di concepimento laddove esiste un ostacolo al concepimento stesso.

 

Esistono diversi livelli di Pma:

Il 1° livello comprende tutte le metodiche che favoriscono il concepimento naturale, ossia la cosiddetta fecondazione “in vivo”. Ne fanno parte l’induzione dell’ovulazione per rapporti mirati e l’inseminazione intrauterina.

Il 2° e 3° livello comprendono tutte le tecniche di fecondazione in cui l’incontro tra ovocita e spermatozoo, prelevati alla coppia, avviene in laboratorio (ossia “in vitro”). Le sopr menzionate indagini e metodi esplorativi vanno ad agire tramite l’azione induttiva di una pluristimolazione ovarica, procedura che consente lo sviluppo simultaneo di più follicoli ovarici, per poter disporre di un elevato numero di ovociti maturi (le cellule uovo materne), da avviare alla fecondazione, aumentando così le possibilità di successo della tecnica.

Le metodiche di fecondazione in vitro sono:

FIVET (fecondazione in vitro embryo transfer – IVF – In vitro Fertilization): con questa metodica ovociti e spermatozoi vengono posti insieme in una piastra con terreno di coltura adatto e si lascia che gli spermatozoi penetrino l’ovocita in modo naturale.

ICSI (iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo): è la microiniezione di un singolo spermatozoo direttamente all’interno della cellula uovo. È riservata ai casi in cui si teme che, con la semplice inseminazione dell’ovocita, ci possano essere problemi nell’ottenere la fecondazione. È considerata metodica di PMA di III livello, quando sia necessario l’utilizzo di spermatozoi prelevati chirurgicamente dal testicolo.

 

Prevenzione

La prevenzione della fertilità nella donna inizia sin dalla sua infanzia e prosegue nell’adolescenza e nella giovinezza, per esempio non trascurando banali infezioni che possono avere conseguenze negative a lungo termine.

Per conservare la fertilità bisogna seguire uno stile di vita sano, evitando alcuni fattori di rischio, come il fumo, l’abuso di alcool, l’obesità o l’eccessiva magrezza, la sedentarietà, ma anche l’eccessiva attività fisica.

E’ noto poi che l’inquinamento e l’esposizione a fattori ambientali tossici possono compromettere la fertilità nella specie umana. Negli ultimi anni si è registrato un incremento delle patologie acute e croniche della sfera riproduttiva legate alle malattie infettive sessualmente trasmesse, che possono comportare un danno permanente agli organi riproduttivi, con conseguente infertilità di coppia.

E’ molto importante, quindi, svolgere un’ opera di istruzione e divulgare regole comportamentali in questo senso, nei riguardi della popolazione giovanile che scopre la sfera sessuale.

Dato che, come abbiamo detto, la possibilità riproduttiva della donna è legata in modo diretto alla sua età, è importante inoltre sottolineare quanto possa essere penalizzante rimandare il momento della maternità.

Parlando di prevenzione, è importante ricordare come oggi la scienza, grazie alle tecniche di crioconservazione, permetta alla donna la possibilità di conservare il proprio patrimonio riproduttivo (ovociti – tessuto ovarico) prima di iniziare terapie (a causa per esempio di un tumore) che potrebbero diminuire o annullare le proprie capacità riproduttive.

La crioconservazione degli ovociti, viene oggi proposta anche a donne giovani e sane che desiderano rimandare il momento della ricerca di una gravidanza in una età in cui il concepimento potrebbe risultare difficile.

 

Infezione da HPV (Papilloma virus)

Infezione da HPV (Papilloma virus)

 

L’HPV (Human Papilloma Virus) include tra le sue specifiche patologie osservabili più di cento varietà diverse di virus. La maggior parte degli HPV causa lesioni benigne, come le verruche che colpiscono la cute (di mani, piedi o viso) e i condilomi o papillomi che interessano le mucose genitali e orali. La maggior parte delle infezioni genitali da HPV regredisce spontaneamente. Una piccola quota invece, se non trattata, può evolvere lentamente verso una forma tumorale. Il tumore del collo dell’utero è infatti quasi sempre correlato alla presenza dell’HPV.

 

Che cos’è l’infezione da HPV (Papilloma virus)?

L’infezione da Papilloma virus umano agisce differentemente in base alla tipologia della patologia stessa e alla famiglia del ceppo virale con cui si entra in contatto. Generalmente, il virus si replica sfruttando le cellule della cute e delle mucose e promuovendone una crescita eccessiva (iperplasia) che provoca le tipiche formazioni: condilomi e papillomi della cute e delle mucose. Spesso queste escrescenze vengono ricoperte da uno strato di cheratina (ipercheratosi) tipica di alcune forme dell’infezione.

I tipi più pericolosi di HPV sono, tuttavia, quelli che provocano lesioni a evolutività maligna nelle vie respiratorie superiori – laringe, faringe, lingua, tonsille, palato, naso – o ai genitali maschili e femminili – glande, pene, scroto per l’uomo, perineo, vagina, utero, cervice uterina per la donna.

 

Quali sono i sintomi dell’infezione da HPV (Papilloma virus)?

I sintomi del Papilloma virus umano sono differenti tra loro a seconde della varietà di infezione. Generalmente, i segni più comuni dell’infezione sono le verruche (verruche comuni, verruche plantari, verruche genitali).

Le verruche genitali (definite condilomi) possono essere localizzate sui genitali esterni, all’interno della vagina, intorno o dentro l’ano e sul perineo (la regione cutanea posta tra la vulva e l’ano). Queste lesioni si manifestano come piccole escrescenze, a volte disposte a grappolo, dalla forma che ricorda quella di un cavolfiore. Esiste poi una nutrita storia medica di casistiche registrate in cui le lesioni sono piatte e tendono a sovrapporsi.

La maggior parte delle lesioni causate da HPV sono asintomatiche, ma in alcuni casi, le verruche possono provocare fastidio, prurito o disagio. I ceppi di HPV che provocano il cancro nelle zone genitali, non si manifestano invece attraverso i condilomi, ma con modificazioni asintomatiche a carico delle mucose genitali (tipicamente del collo uterino).

 

Quali sono le cause dell’infezione da HPV (Papilloma virus)?

L’infezione genitale da Papilloma virus umano si trasmette essenzialmente attraverso i rapporti sessuali: è infatti una delle più frequenti malattie sessualmente trasmesse. È ammesso che la trasmissione possa avvenire anche con un contatto fisico, se ci sono cellule virali attive e se sono presenti lacerazioni, tagli o abrasioni nella pelle e/o mucose. Generalmente, le infezioni più pericolose delle vie respiratorie o del cavo orale si trasmettono attraverso il sesso orale, attraverso il contatto, quindi, tra la mucosa e i genitali.

Le persone che hanno un sistema immunitario particolarmente vulnerabile sono più esposte al rischio di contagio. Con frequenza decisamente inferiore, l’infezione può essere provocata, in alcuni luoghi ove si crei promiscuità (come docce pubbliche, piscine, caserme), dal contatto con superfici in precedenza utilizzate da portatori dell’infezione.

 

Diagnosi

La diagnosi clinica di infezione da HPV viene eseguita dal medico che rileva la presenza delle tipiche lesioni.

La diagnosi delle alterazioni citologiche e/o istologiche (ossia delle cellule o dei tessuti) provocate dai ceppi di HPV potenzialmente oncogeni, viene invece ottenuta attraverso l’esecuzione del Pap Test o di test appositi per la rilevazione del DNA virale. Se necessario, si effettuano biopsie mirate a carico delle mucose genitali, sotto il controllo di un particolare strumento (il colposcopio) che permette la visualizzazione ingrandita dei tessuti esaminati.

 

Trattamenti

È possibile che le lesioni causate da HPV guariscano spontaneamente senza alcun trattamento. È bene sapere però che, anche quando le verruche scompaiono, il virus può essere ancora presente nell’organismo umano.

Le verruche cutanee possono essere trattate con soluzioni topiche a base di acido salicilico o acido tricloroacetico o con creme ad azione antivirale, oppure essere rimosse con trattamenti chirurgici locali (diatermocoagulazione, laser terapia, crioterapia).

I condilomi genitali vengono generalmente vaporizzati attraverso la diatermocoagulazione o i trattamenti laser.

Le lesioni precancerose della cervice uterina, vengono asportate con asportazioni parziali del collo dell’utero, permettendo alla donna di mantenere inalterate le capacità riproduttive.

 

Come prevenire l’infezione da HPV (Papilloma virus)?

Per evitare l’infezione da HPV è importante ricordare alcune semplici regole. Se si frequentano spazi comuni, come spogliatoi o piscine, mantenere i piedi puliti e asciutti e indossare sempre scarpe o ciabattine.

Per evitare la diffusione di verruche dalle mani alla bocca è necessario non mangiarsi le unghie.

La trasmissione dei condilomi genitali si può ridurre, diminuendo i rapporti a rischio, promiscui od occasionali e utilizzando sempre il preservativo (che permette di neutralizzare, se non tutte, le più frequenti modalità di contagio). È importante inoltre curare l’igiene personale.

Le donne sessualmente attive devono sottoporsi periodicamente alla visita ginecologica e al Pap Test, meglio se abbinato alla ricerca del DNA virale.

Da alcuni anni esiste in commercio un vaccino che protegge la cervice uterina dai ceppi più pericolosi di HPV. Studi scientifici ne hanno promosso la somministrazione alla popolazione adolescente di entrambi i sessi, per ridurre il rischio di contagio. Recenti studi sembrerebbero validare l’utilizzo del vaccino anche alla popolazione adulta o già infettata dal virus stesso.

 

Infiammazione della cuffia dei rotatori

Infiammazione della cuffia dei rotatori

 

La cuffia dei rotatori è il complesso dei quattro muscoli (con i rispettivi tendini) che concorre al movimento dell’articolazione della spalla nei vari piani dello spazio e che tiene stabile l’articolazione fra la scapola e l’omero (l’osso che appartiene alla parte superiore del braccio).

La tendinite della cuffia dei rotatori è l’infiammazione di uno (o più) tendini che la costituiscono, mentre la borsite è l’infiammazione di una delle borse (cioè piccole “sacche” con un contenuto fluido che servono a diminuire gli attriti durante i movimenti).

 

Che cos’è l’infiammazione della cuffia dei rotatori?

Un’infiammazione dei tendini della cuffia dei rotatori è una condizione molto comune e viene caratterizzata generalmente da dolore (presenta sia col movimento che a riposo) e da limitazione nell’esecuzione di alcuni movimenti.

Spesso, specialmente quando la causa dell’infiammazione è l’eccessivo sforzo, l’infiammazione si risolve attraverso il riposo, il ricorso a farmaci antinfiammatori e a terapie fisiche e fisioterapiche.

 

Quali sono le cause dell’infiammazione della cuffia dei rotatori?

L’infiammazione della cuffia dei rotatori può essere causata da traumi, dall’eccessiva ripetizione di movimenti che stressano l’articolazione fra scapola e omero, dalla naturale degenerazione delle strutture tendinee dovuta all’età o da postura e movimenti impropri per l’articolazione. Ancora più frequente è che sia causata da una combinazione dei fattori appena descritti.

 

Quali sono i sintomi dell’infiammazione della cuffia dei rotatori?

L’infiammazione della cuffia dei rotatori è caratterizzata da dolore, a volte difficilmente localizzabile, della spalla sia con i movimenti che  a riposo (soprattutto nelle ore notturne), da debolezza muscolare della spalla e da perdita di ampiezza nei relativi movimenti.

 

Quali sono i fattori di rischio dell’infiammazione della cuffia dei rotatori?

Alcuni tipi di attività sportiva sollecitano particolarmente l’articolazione fra scapola e omero o la espongono a una maggiore probabilità di infiammazione. Fra questi, i più diffusi sono tennis, nuoto, canottaggio, sollevamento pesi, basket, rugby e tutti gli sport di lancio.

L’età, inoltre, è uno dei fattori più importanti, poiché con l’aumentare dell’età diminuisce l’afflusso di sangue all’articolazione, e con esso la quantità di proteine fibrose (soprattutto collagene) che vengono fissate a tendini e muscoli. È questo il motivo per cui la maggior parte delle persone anziane ha problemi con la cuffia dei rotatori e presenta spesso lesioni, anche asintomatiche.

Anche patologie metaboliche (es. diabete) o abitudini di vita (fumo) predispongono allo sviluppo di patologie a carico della cuffia dei rotatori.

L’infiammazione può tuttavia derivare anche dallo svolgimento di un lavoro che sollecita l’articolazione in modo continuo o da una predisposizione personale, dovuta alla naturale conformazione dell’articolazione o alla debolezza muscolare.

 

Come prevenire l’infiammazione della cuffia dei rotatori?

Mentre non è possibile avere la certezza di prevenire l’infiammazione della cuffia dei rotatori, è facile diminuire le possibilità di una infiammazione e di una lacerazione traumatica o da degenerazione attraverso i seguenti accorgimenti:

-esercitare regolarmente la spalla per mantenere flessibilità e forza della muscolatura.

-fare attenzione agli sforzi che riguardano l’articolazione fra spalla e omero.

-riposo quando l’articolazione duole o è infiammata.

-sottoporsi ad un controllo specialistico in caso di persistenza della sintomatologia.

 

Diagnosi

L’infiammazione della cuffia dei rotatori si diagnostica solitamente attraverso l’esame fisico, in quanto il dolore nel compiere certi movimenti è sufficiente a confermare la condizione. Metodi più approfonditi, come la risonanza magnetica o l’ecografia della spalla, servono a escludere che il dolore sia dovuto ad altre condizioni, come lacerazioni o fratture.

La radiografia, invece può essere utilizzata per rendere visibili eventuali imperfezioni ossee che ne sono talvolta la causa della lenta consunzione del tendine, o per evidenziare eventuali calcificazioni del tendine dovute alla degenerazione.

 

Trattamenti

Nella maggior parte dei casi un periodo di riposo, l’assunzione di farmaci antinfiammatori non steroidei e l’impiego di terapie fisiche e fisioterapiche sono misure sufficienti per trattare l’infiammazione della cuffia dei rotatori.

Nei casi in cui il problema risulta di maggiore entità, può essere consigliata la terapia con onde d’urto focali. Questa terapia è indicata sia in presenza di calcificazioni che in loro assenza poiché non serve a “rompere” i depositi di calcio, ma si basa su una stimolazione meccanica dei tessuti della spalla allo scopo di indurre un effetto antinfiammatorio e rigenerativo.

In alcuni specifici casi, lo specialista può prescrivere invece un trattamento basato su infiltrazioni di corticosteroidi, per alleviare più rapidamente l’infiammazione.

In alcuni ancora più rari casi (meno dell’1%) si può arrivare alla necessità di un intervento chirurgico per risolvere non tanto il problema dell’infiammazione tendinea, quanto la presenza di eventuali lesioni associate.

Inibitore della C1

Inibitore della C1

 

S’impiega nel trattamento dell’angioedema ereditario negli adolescenti e negli adulti.

 

Che cos’è l’inibitore della C1?

Esso esplica la sua azione bloccando l’attività dell’enzima esterasi. In Tal modo aiuta a controllare l’infiammazione e l’attività del sistema immunitario, contribuendo quindi alla prevenzione del gonfiore e del dolore.

 

Come si assume l’inibitore della C1?

Si somministra direttamente in vena.

 

Effetti collaterali dell’inibitore della C1

Il suo impiego è stato associato alla formazione di trombi.

 

Fra gli altri suoi possibili effetti indesiderati sono inclusi:

scariche di diarrea

mal di testa

senso di nausea

 

È importante rivolgersi subito ad un medico in caso di:

rash

orticaria

prurito

difficoltà a respirare

senso di pesantezza o oppressione al petto

gonfiore a bocca, volto, labbra o lingua

 

Controindicazioni e avvertenze

Prima dell’utilizzo dell’inibitore della C1 è importante rendere edotto il medico:

circa la presenza di eventuali allergie al principio attivo, ai suoi eccipienti, a qualsiasi altro farmaco, ad alimenti, ad altre sostanze o al coniglio

dei medicinali, dei fitoterapici e degli integratori già assunti in passato, in particolare estrogeni e steroidi

se si soffre (o si è sofferto nel pregresso) di malattie cardiovascolari o problemi ematici

se non si è in grado di deambulare da un considerevole periodo di tempo

in caso di gravidanza o allattamento

in caso di ictus

se si è portatori di cateteri o di dispositivi all’interno delle vene

È importante far sapere a medici, chirurghi e dentisti dell’utilizzo dell’inibitore della C1.

In caso di viaggi è altresì importante consultarsi con il proprio medico su come comportarsi con l’inibitore della C1.